Gabetto Guglielmo - Torino Club Fedelissimi Granata Pesaro

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GUGLIELMO GABETTO

Il Barone del goal

"A volte sembrava assentarsi dalla partita, stava preparando una delle sue reti artistiche"

Bo attaccante era passato dal Torino alla Juventus, Vecchina attaccante dalla Juventus al Torino, adesso sarebbe toccato a Bodoira portiere e a Borel attaccante trasferirsi dalla Juventus al Torino (Borel d'altra parte era cresciuto nel Balon Boys, i ragazzi del vivaio granata)... E il mondo aveva sempre continuato a girare in tondo. Dunque Gabetto poteva passare anche lui dalla Juventus al Torino nello stesso anno, il 1941, di Borel e Bodoira. Per ben 330.000 lire, cifra importante, Gabetto aveva 25 anni, in sette stagioni juventine aveva giocato 164 partite segnando 86 reti, più di mezzo gol a match, e giocando 6 incontri nel 1934-35, ultimo anno della quinquennale dominazione bianconera, Dusio neo presidente bianconero forse pensava che ormai avesse dato il massimo.
Guglielmo Gabetto, torinese era di quelli che amavano prima il calcio, poi le squadre della sua città.
Ne nascevano molti, allora, come lui.
Non sembravano calciofili blasfemi atleti senza bandiera, sembravano, toh, sportivi.
Gabetto passò dunque serenamente al Torino dove giocò 219 partite segnando 120 reti, stessa media di prima.
Vinse 5 scudetti, arrivò alla Nazionale.
Lui e Bodoira gli unici nella storia ad avere vinto il titolo italiano con maglia della Juve e del Toro:
anche questo è un primato di capacità di adattamento e contorsionismo sentimentale.
Il Grande Torino venne costruito intorno a lui e ad Ossola, che in granata lo aveva preceduto di un anno: e lui ed Ossola furono grandi amici, aprirono un bar insieme dove i tifosi andavano a prendere l'aperitivo, anzi allora si diceva il vermuth.
Gabetto divenne il Torino; simbolo granata persino più di Mazzola, perché nato in città, palpabile ogni giorno al bar. E capace di molti grandi gol alla Juventus. Con stile, poi, un bel po' bianconero: nel senso che Guglielmo Gabetto detto il Barone era un artista del calcio, un erede diretto dei grandi bislacchi juventini, degli oriundi Cesarini e Orsi (quest'ultimo imitato anche per i quintali di brillantina a schiacciare i capelli). Quasi ogni suo gol era picassiano, anche se di Picasso allora si sapeva poco.

Grandissimo, e autenticamente lanciato verso un tramonto "alla Gabetto" che sarebbe stato speciale, con un addio pirotecnico, questo è certo, e con una permanenza dirigenziale nel Torino, dove non per caso adesso lavora Pierluigi, uno dei suoi due figli, responsabile del settore giovanile dopo alcuni saggi niente male, lui come il fratello, di calcio giocato in prima persona.
Gabetto firmò tantissimi gol con lo sberleffo, da mago che faceva sparire il pallone rimaterializzandolo nella porta avversaria.
Era forte anche di testa. Faceva fare bruttissime figure ai difensori, ma pochi osavano colpirlo. Fra l'altro sapeva dribblare anche le botte, gli assalti proditori.
Conosceva momenti di abulia: ma se nella Juventus erano frequenti, tanto è vero che un dirigente bianconero lo definì "bravissimo come riserva, scarso come titolare", denunciando i suoi sfracelli negli allenamenti e la sua abulia nelle partite ufficiali, nel Grande Torino certe sue assenze apparvero sempre come preparazioni speciali di qualcosa di speciale, un gol inventatissimo, il colpo del ko.
Nel primo dopoguerra Guglielmo Gabetto fece anche il giornalista, nel senso che firmò, da direttore simbolo insieme con Giglio Panza direttore responsabile, Piemonte Sportivo periodico inventato dal giornalista vercellese soprattutto per il calcio della regione.
Gabetto era pure un uomo di mondo, amava il bel vestire, fumava anche per un senso estetico, la sigaretta come orpello del personaggio (e d'altronde fu proprio lui a dirimere con la sua simpatia, la sua fama una storia pesantuccia di sigarette di contrabbando, scoperte da una Guardia di Finanza i cui componenti non erano o non volevano dimostrarsi troppo calciofili). La sua eleganza era insieme naturale e coltivata. Quelli della Juventus si consolavano per averlo perduto dicendo che nei modi lui era rimasto un tipico borghese bianconero, prossimo al senso aristocratico del bel vivere, diverso dal senso populistico del buon vivere.

E sempre ironico: quando sulla Gazzetta dello Sport insistevano a scrivere il suo cognome al plurale, Gabetti, disse che forse era perché in campo lui frastornava i difensori, sino a portarli a credere di essere aggrediti da due, tre attaccanti, non da uno solo. E a proposito di nomi: per i tifosi era Gabe, per gli amici specie della prima gioventù era Fao, origine misteriosa.
Infine il bar che gestiva con Ossola, formalmente Bar Vittoria, in pieno centro della città, accanto al cinema omonimo tuttora esistente anzi resistente, quel bar veniva chiamato dai tifosi Gabos, appoggiato al suo cognome.
L'aneddotica di Guglielmo Gabetto, quella personale e quella granata, è ricchissima.

Scegliamo un quadretto in Torino-Lazio al Filadelfia, tre gol in avvio per i laziali, e lo sfottò in piemontese del laziale Piacentini, torinese che era stato terzino del Torino:
"Gabe, barone mio, tre ti bastano?". E lui: "Tranquillo, hai dimenticato come so fare magie?". Risultato finale 4-3 per il Torino, due reti di Castigliano, una di Mazzola e una, si capisce, di Gabetto, che aveva fatto in tempo anche a umiliare l'altro con il suo repertorio per una volta tanto virato sul sadico.

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