Maroso Virgilio - Torino Club Fedelissimi Granata Pesaro

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VIRGILIO MAROSO

Il terzino delle meraviglie



Tra le magie di Maroso finte e dribbling in area, palla al piede
"Il campione era costato 100 lire e per averlo c'erano state lunghe discussioni"

Virgilio Romualdo Maroso detto Maldo, classe 1925, era molto semplicemente uno dei più grandi terzini del mondo. Lo sapevano i suoi compagni di squadra, certi avversari, Vittorio Pozzo commissario tecnico della Nazionale, molti tecnici, molti giornalisti. Lo si pensava spesso prodotto purissimo della grande scuola piemontese, più alessandrina tutta stile che vercellese tutta vigore, e pazienza se era veneto di Crosara di Marostica, provincia di Vicenza: ma era arrivato a Torino da bambino, per il trasferimento dei genitori, ragioni di lavoro.
I tifosi del Toro non potevano accettare che si discutesse il primato di Valentino Mazzola su ogni altro calciatore del mondo, e quindi anche su ogni altro calciatore granata. Però di Maroso dicevano che era un'altra cosa. E in ogni partita Maroso offriva almeno un poker di altre cose: una magia artistica tipo dribbling estremo in area di rigore; un'uscita di mischia, palla al piede e testa alta, con gli avversari prima messi a terra dalle sue finte e poi marmorizzati dal suo tempismo; un colpo di testa che era un passaggio intelligente, anche un'acrobazia. Mai una scorrettezza.
Il fatto che patisse guai fisici misteriosi evidenziati da una lunga sosta specie nella stagione 1947/48, con appena 17 presenze contro le 39 dell'altro terzino Eallarin e le 24 di Tomà, quasi paradossalmente alimentava il fascino del suo personaggio. Ci volle una precisa diagnosi del professor Scaglietti di Firenze, approdo di tanti calciatori preoccupati, per chiarire il distacco avvenuto per un movimento troppo spinto, in partita a Bergamo, del tendine adduttore nella regione destra del pube.
Adesso si direbbe pubalgia, e tutti capirebbero facilmente. Allora si parlò di elioterapie in scandaloso costume adamitico, e soprattutto si ipotizzò un suo carattere scarsamente reattivo. Il bel ragazzo biondo reagì sposandosi con preavviso minimo nel giugno di quel 1948, e con una bella torinese conosciuta da poco:
come a dire che era padrone della sua vita, padrone anche di andare in motocicletta, contro il parere dei dirigenti che già dovevano subire le folli scorribande di Rigamonti.
Ma il viaggio di nozze, in Liguria a Diano Marina, fu fatto in Topolino. Maroso era costato al Torino 100 lire, dopo lunghe discussioni da suk: Mario Sperone, ex calciatore granata, buon tecnico scopritore di talenti, lo aveva segnalato dopo averlo visto sgambettare a quindici anni sul campetto torinese del Doglia.
Dissero che radunava nel suo personaggio tecnico e atletico lo stile di Rosetta e la prestanza di Caligaris, terzini della Juventus negli Anni Trenta, e il talento di De Vecchi del Milan e poi del Genoa, detto Figlio di Dio, il primo asso ufficiale del nostro calcio, esordiente in Nazionale nel 1910, quando aveva sedici anni. Maroso con la Nazionale ebbe un rapporto breve, poche partite, allora, e per lui sette maglie azzurre, ma intenso, e segnò anche un gol da zoppo, a Genova contro il Portogallo.
Per la gente granata Maroso era un assoluto naturale, indiscutibile, rimpiazzabile ma non mai pienamente sostituibile. Il suo vicino di pianerottolo in difesa, Aldo Ballarin, sembra lì apposta, con la sua forza vicina alla rudezza, la sua essenzialità persino eccessiva, la sua semplicità atletica, per esaltare Maroso nella giostra dei contrasti. Ovviamente i due si integravano perfettamente, e fra l'altro si stimavano molto.
Maroso colpiva subito chiunque, anche un avversario. Quando giocò in Nazionale a Vienna e l'Italia fu travolta dall'Austria per 5 a 1, il capo carismatico della squadra azzurra, Parola della Juventus, nello spogliatoio chiari subito, in piemontese: "Noi tutti male, salvo lui, Maroso". In quella partita gli ufficiali sovietici che si godevano il calcio nella Vienna militarmente da loro presidiata andarono da una curva all'altra, nell'intervallo, per poter seguire e applaudire da vicino il terzino italiano.
Leggere adesso i giudizi critici su di lui significa scorrere una specie di antologia delle virtù del calciatore.
Fra l'altro tutti sembravano d'accordo nel dire che Maroso poteva giocare alla grande in qualsiasi ruolo. E c'era chi deprecava che fosse impiegato soltanto come terzino, in un ruolo a priori distruttivo. Dopo tanti anni e tanti brocchi glorificati, il vecchio tifoso granata può addirittura arrivare a un calcio in debito con un atleta che venne ammirato più che capito. La pratica del suo gioco elegantissimo peraltro sembrava quasi una licenza, una concessione speciale di cui lui godeva per una sorta di diritto divino. Il diritto di fare appunto il Maroso.
Quando, nel maggio del 1948, l'Inghilterra venne a Torino per farne quattro (a zero) all'Italia, Eliani della Fiorentina sostituì l'infortunato Maroso con la maglia numero 3, e patì le finte, gli schemi tecnici, persino gli scherzi atletici del baronetto Stanley Matthews, grande ala destra dei bianchi, capace di simulare di pettinarsi con le dita prima di partire di scatto. Tutti gli spettatori pensarono che con Maroso certe cose non sarebbero potute succedere. Perché Maroso poteva anche, da solo, sconfiggere l'Inghilterra tutta: se soltanto lo voleva fermissimamente, e quel muscolo non gli dava troppo fastidio.
 

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