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ERNEST ERBSTEIN "ERNO"
L'ALLENATORE DEL GRANDE TORINO
Una storia incredibile, è quella di Anton Egri Erbstein, l'uomo che costruì il Grande Torino. Ungherese di nascita, aveva girato il mondo e, aveva anche giocato negli Stati Uniti, nella squadra dei Brooklin Wanderers. Era poi arrivato nel nostro paese, ove, dopo aver appeso le scarpette al chiodo, aveva intrapreso la carriera di allenatore. E nella veste di tecnico, aveva assunto il calcio come filosofia e impegno morale, come scuola di vita e come mezzo di espressione di doti non soltanto sportive, ma anche civili. Cominciò a mostrare il suo grande valore alla Lucchese, che aveva portato nella massima divisione partendo dalla serie C, e dove il suo destino si era incrociato con altre personalità di grande rilievo. Come Bruno Scher, fortissimo mediano di origini slave e salde convinzioni antifasciste, che per non piegarsi ai diktat del Regime (come quello di italianizzare il suo cognome), si giocò la possibilità di andare in Nazionale e la carriera. O come Bruno Neri, fortissimo mediano anche lui nettamente antifascista, che all'arrivo della guerra sul suolo italiano, decise di andare in montagna coi Partigiani, trovando la morte per mano nazifascista. Dopo le prove di bravura esibite in Toscana, anche per Erbstein era arrivata la chiamata di Ferruccio Novo, l'uomo che stava costruendo la più grande squadra di calcio mai apparsa sui campi italiani, il Grande Torino. Arrivato in granata nel 1938-39, in qualità di direttore tecnico, Erbstein aveva rivestito un grandissimo ruolo nella costruzione della squadra che aveva dominato il calcio italiano tra il 1943 e il 1949. Oltre alla grande preparazione tattica e alla capacità di sapersi adattare all'evoluzione imposta dall'avanzata del tempo, Erbstein aveva capito che il calcio poteva trarre grandi vantaggi aprendosi alle innovazioni provenienti dall'esterno, soprattutto usufruendo di tutto ciò che poteva migliorare la resa fisica ed atletica dei giocatori, diminuendo gli sbalzi di rendimento dovuti ad una preparazione casuale e che non teneva in alcun conto le differenze di caratteristiche tra i vari componenti della rosa. In ragione del suo diploma in educazione fisica e degli studi che aveva continuato a condurre sulle più avanzate tecniche di preparazione degli atleti, adottò un'altro accorgimento di grande importanza per una epoca in cui non esisteva ancora la possibilità di sostituire i giocatori infortunati, quel riscaldamento prepartita che serviva ad evitare fastidiosi contrattempi muscolari ai giocatori che sin troppo spesso esponevano la propria muscolatura ai pericoli di un difettoso approccio alla contesa, lasciando molto spesso la squadra con un uomo di meno. Sul piano prettamente tecnico, l'ungherese fu un vero e proprio precursore, preconizzando l'avvento di tecniche che si sarebbero affermate molto più tardi, come il pressing, il movimento senza palla e il football atletico a tutto campo.
Ma le conoscenze in questione non erano in fondo la maggiore caratteristica di Erbstein. Ciò in cui veramente si differenziava dai tecnici dell'epoca era la capacità di creare un rapporto di fiducia coi giocatori, grazie ad una sensibilità umana che non di rado affascinava l'interlocutore. In un'epoca in cui l'allenatore tendeva ad improntare i rapporti coi giocatori su un piano puramente disciplinare, egli puntò sul dialogo costante con gli stessi, arrivando ad interessarsi anche di aspetti che esulavano dal piano puramente professionale. Provvisto di grandi doti dialettiche seppe creare nella squadra una atmosfera di grande cameratismo che, a detta di Pietro Ferraris II, ebbe una parte fondamentale nei successi del Grande Torino, agevolato in questo anche dalla cura certosina che Novo riservò nel corso della guerra alle esigenze dei suoi uomini, assicurandosene la riconoscenza. La considerazione che i giocatori del Grande Torino avevano per quello che consideravano un maestro, era immensa, ed era dovuta proprio alla finezza con la quale Erbstein coltivava il rapporto umano. Quando le Leggi Razziali avevano colpito la comunità ebraica italiana, Erbstein era dovuto espatriare e aveva raggiunto l'Olanda, lasciando il paese poco prima che fosse occupato dai nazisti. Tornato in Ungheria, era riuscito a tenersi in contatto con Novo e, alla fine del conflitto, aveva potuto far ritorno in Piemonte, riprendendo il ruolo di eminenza grigia che già aveva ricoperto in passato. Scampato ai campi di sterminio, il destino, però, lo aspettava evidentemente al varco. Salito sull'aereo che riportava il Grande Torino a casa, dopo l'amichevole giocata contro il Benfica in Portogallo, Erbstein trovò la morte insieme ai suoi ragazzi sul muraglione della Cattedrale di Superga, entrando con loro nella leggenda del nostro calcio.
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